The Freeridespirit Snowboard Expedition to Pik Lenin 7134 m - Kirghizistan   
 
Al Dio del Freeride
di Luca Dalla Palma.
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  4 Agosto 2001

In tutte le storie che si rispettino, un accadimento fra tutti  quello che ci ricorda, meglio di altri, il senso dellâesperienza. Nel caso del Lenin, dopo venti giorni passati in montagna, dopo le migliaia di metri di dislivello, i sacchi pesanti, i cibi liofilizzati, il brutto tempo, la cima· lâepisodio che davvero ricordo inizia il 4 agosto 2001, alle otto del mattino, nella trepida atmosfera che aleggia sul campo Base. Appena discosto dalle tende, un vecchio UAZ gemellato, a quattro ruote motrici, riattato al trasporto civile dopo lunga militanza nellâesercito URSS, aspetta di condurci a Osh. Stando ai programmi, dovremmo partire tra poco, pronti a frullarci (letteralmente) il lungo viaggio di ritorno. Purtroppo qualcosa, nel programma, non quadra affatto: Emilio  ancora in montagna! Senza di lui, evidentemente, di partire non si parla proprio. Non abbiamo notizie da parecchie ore. O meglio, qualche voce arriva frammentaria e distorta. E fa temere il peggio. Una guida russa dice dâaverlo visto scendere in direzione opposta alla vetta (???). Un gruppo raggiunto via radio sostiene che sulla Nord non si notano tracce. Si potrebbe dedurne, contrariamente ai propositi, una discesa lungo lâitinerario di cresta. Ma anche in questo caso, nessuno lâha visto transitare ai campi. Dopo tante notizie dubbie, finalmente un contatto credibile al campo Uno: sceso sulla Nord, Emilio ha passato in qualche modo la notte e ora  sulla via del ritorno. Anche se in forte ritardo, dunque, fra qualche tempo dovrebbe raggiungerci al Base. Arriva stanchissimo, sfinito dalla lunga discesa. Lo aiutiamo coi bagagli e, nel primo pomeriggio, finalmente partiamo. Anzi no. Lâarcaico UAZ non vuole saperne. Da qualche ora il driver smanetta nel motore per riparare non si sa cosa. Inutile. Solo verso le due, accompagnata da un barrito che fa rizzare i capelli, unâeruzione di fumo, nera come pece, invade il campo. Il mitico UAZ s⏠deciso. Saliamo veloci, prima che ci ripensi, e ci mettiamo in strada. Oddio, chiamarla strada  piuttosto eufemistico: in realtˆ  una labile traccia, appena percepibile, che attraversa la morena. Ovviamente disseminata di dossi, cunette e ogni sorta dâostacoli· Inutile dire che tanto basta a trasformare il viaggio nella perfetta imitazione dâuna centrifuga infernale. Che peggiora ulteriormente in occasione di un guado, tutto massi e avvallamenti. Un delirio che, tra scornate, sballottamenti, sacchi che volano a mezzâaria e imprecazioni· un tantino sâattenua raggiungendo la sterrata in fondo alla valle. Migliorato di stretta misura, per decine e decine di chilometri il viaggio  un frequente saltare, un reggersi in qualche modo, un raccogliere borsoni, un chiudere e richiudere le finestrelle che ogni buca spalanca, risucchiando allâinterno nuvole e nuvole di sottilissima polvere. Solo dopo qualche ora, otto saranno necessarie a raggiungere Osh, il delirio si placa: la sterrata farˆ posto allâasfalto.

Guadagnamo la cittˆ a sera tarda, stupiti che lâisolamento della montagna, abbia trasformato luci e lampioni in luminarie da circo. Siamo sfiniti, pi che altro dai robusti massaggi che il vecchio fuoristrada, fin troppo generosamente, ha elargito al fondo schiena. Scarichiamo il bagaglio, rintronati e con le orecchie che ronzano. Usi alle adamantine solitudini delle alte quote, siamo perplessi di fronte al frenetico vai e vieni di gente che ingombra i piani bassi dellâalbergo. A quanto pare, una festa  in corso. Di quelle con tanto di donnine succinte e uomini soli. Preferiamo non approfondire e dedichiamo mezzâora a una meritatissima, benchŽ modesta, cena di festeggiamento. Brindiamo al successo della spedizione, scolandoci generose dosi di cola e acqua minerale. Saputo allâultimo istante che la partenza  prevista alle sei domattina, saliamo ai piani alti, imbustandoci alla velocitˆ della luce nelle lenzuola. Qualche ora di sonno e la sveglia, implacabile, riporta in vita. Fra strofinio dâocchi e sbadigliamenti, alle sei siamo nuovamente in strada. Ammonticchiamo i borsoni nel bagagliaio spalancato dâun taxi e subito ci lanciamo, a velocitˆ supersonica, nel traffico. Alle sei e quaranta in punto, entriamo nellâatrio semideserto dellâaeroporto. La nostra accompagnatrice, Sonja, una ragazzina di forse sedici anni, dice che dobbiamo aspettare. Aspettare cosa? Alle sette e dieci vediamo decollare un primo aereo. Eâ un microscopico jet, in grado di viaggiare con forse trenta persone a bordo. Eâ gremito. Non sapendo leggere il cirillico chiediamo dov⏠diretto. Un inserviente che spiccica tre parole inglesi dice che vola a Bischkek. Ma come? Eâ il nostro! Niente paura, rassicura Sonja, prenderemo il prossimo. Detto questo, la vediamo sparire per almeno due ore. Alle dieci, la scena si ripete; lâaeroporto si riempie dâindigeni, montano sullâaereo, lâaereo decolla e noi, per la seconda volta, restiamo a terra. Che qualcosa non giri per il verso giusto, a quel punto,  evidente. Ma ancora una volta veniamo rassicurati: tutto sotto controllo. A mezzogiorno, la scena replica esattamente le precedenti. ăPorco boia!ä sbotta Emilio ăAdess basta!ä Senza lasciarsi addolcire dai sorrisi di Sonja fa una scenata da brivido. Impreca a voce alta, producendosi in un inedito e spassosissimo monologo anglo bergamasco. Infuriato, mette mano al telefono e chiama lâagenzia, a Almathy. Tanto basta, qualcosa succede: Sonja comincia a girare lâaeroporto come una trottola e riesce a garantirci, lei solo sa come, un posto sul prossimo aereo. Alle due del pomeriggio, riusciamo finalmente a muoverci. Al centro della pista, desolatamente vuota,  parcheggiato lâaereo. é una sorta di micro-autobus, piuttosto antico, dotato di ali. Raggiungiamo il velivolo, trascinando sulla pista il bagaglio. Davanti a noi, una ventina dâindigeni sâinfila senza dubbi nella carlinga. Fingendo di non notare i pneumatici esageratamente lisi, saliamo anche noi. Lâarredamento interno, in molti punti rattoppato,  degno dâun treno vittoriano. Quanto ai sedili, a un primo sguardo lâidea dellâautobus con le ali  pienamente confermata. Aiutooooo! Una volta in quota, la situazione  terribile: invisibili correnti sâinfrangono sullâincerto velivolo procurando effetti e suspance degni di Gardaland. Due ore di scarrociamenti, fremiti, impennate· fin quando, con una picchiata preoccupante, tocchiamo terra. Allâaeroporto, siamo attesi da un omino dai capelli impomatati e una signora rubizza. Non spicciano tre parole inglesi ma sorridono continuamente. Carichiamo i bagagli su un pulmino decrepito, bianco e azzurro, con le tendine. Molto ăfigli dei fioriä. Allâinterno, le esalazioni di carburante e il calore, sono a dir poco allucinanti. Partiamo alla volta di Almathy. Cinque ore dâauto a occhio e croce, attraverso le brulle, monotone pianure kirghize. Di quando in quando un paese: dieci case in tutto ai lati della strada, uno stuolo di venditori, ragazzini che giocano, cani sbandati, gente che vaga senza meta nella polvere del meriggio. Il viaggio  un continuo vedere e rivedere le stesse cose, gli stessi paesaggi. Niente che rompa la monotonia. A parte quando· raggiunta la frontiera tra Kirgizstan e Kazakstan, un copricapo gigantesco, con sotto un miliziano. fa segno di fermarsi. Tutto bene·  previsto. Imprevisto, invece, scoprire che non abbiamo i visti dâingresso. Ma come? Non doveva pensarci lâagenzia? A cosa sono serviti tutti i dobloni che ci hanno estorto? Presa alla sprovvista, la signora  in palla totale. Dˆ segni di non saper cosa fare. Le sfuggono rauche imprecazioni (sembrava una donnina tanto a modo) mentre lancia continui sguardi ai passaporti, al miliziano, a noi che dobbiamo sembrarle motivo inaccettabile per rivedere i suoi programmi serali. Ultima spiaggia, mette mano al telefono, confabula due minuti. Poi sâillumina e la vita torna a sorriderle. Si apparta col miliziano e dopo un breve conciliabolo risale in pulmino, sorridente. Si riparte, come nulla fosse accaduto. Di nuovo torna tutto uguale, monotono. A parte quando· il pulmino, evidentemente esausto, comincia a sputacchiare, rimbalzare, inalberarsi, tremolare· Poi· decide di fermarsi a riposare. Di botto, nel bel mezzo dâuna sconfinata pianura nuda. Il driver sembra imbarazzato. A cofano alzato comincia a smanettare, stringendo un bullone, verificando una coppiglia, scuotendo un cavo· Fa pensare a Frankenstein che tenta di rianimare il mostro. Poi, constatato lâesito negativo degli amorevoli massaggi, desiste. Si sdraia tranquillo, a bordo strada, con un filo dâerba tra i denti. Fa capire a gesti che dobbiamo aspettare mezzâora. Mezzâora? PerchŽ mezzâora? So solo che dopo trenta minuti esatti, alla prima girata di chiave, il veicolo parte. Eâ il caso di dire· come un orologio! Di nuovo in viaggio. Senza altre sorprese raggiungiamo Almaty, a notte ormai fonda. Rinunciamo subito allâidea di mangiare non riuscendo quasi a tentare una doccia. Dopo poco, ubriachi di stanchezza, schiattiamo. Abbiamo una manciata di minuti per tentare un sonno. Stando al programma, fra tre ore, allâuna e mezza della notte, il furgoncino passa a riprenderci. A quanto pare, dobbiamo sbrigare alcune pratiche doganali, prima dâimbarcarci per Istambul. La sveglia suona che sembra passato un secondo. Lâuna e dieci. Nella hall, ecco Alexander, vice responsabile dellâagenzia. Per un attimo, esasperati dallâassurditˆ del viaggio e dai mille accadimenti negativi che hanno contrassegnato la permanenza al Lenin, abbracciamo lâidea dâesprimergli disappunto, se non altro per lâinaccettabile gestione della logistica. Decidiamo infine di sorvolare, forse perchŽ esausti o forse, anzi probabilmente, perchŽ consapevoli che tra poco saremo in volo per casa. Preso posto sul furgone attraversiamo sobborghi deserti, incrociando qualche auto solitaria, male illuminata dai radi lampioni. Lunghe file di eucalipti, con il tronco vistosamente imbiancato, fanno da contorno alla strada. Dopo mezzâora, in prossimitˆ dellâaeroporto, il paesaggio si anima: macchine in ogni dove, parcheggi strapieni, gente in continuo movimento, bagagli, negozi aperti, mendicanti, poliziotti. Un vero caos. Sembra abbiano organizzato una festa. Alle due del mattino? Preso da frenesia inopportuna Alexander ci scarica al terminal 2, prende i nostri passaporti e un centinaio di dollari (per attendere a ăformalitˆ doganaliä dice), e si eclissa. Promette di tornare subito. Passa unâora, ne passano due. Preoccupante? Tra venticinque minuti il nostro aereo si alza da Almaty. Che facciamo? Senza passaporti un bel niente! Ancora cinque minuti e Alexander compare, trafelato. Si scusa arrossendo: ăIl consoleä spiega änon era in sedeä. Eâ comunque riuscito a farsi apporre i visti sui passaporti. Lo salutiamo, senza troppo calore, ormai troppo incazzati per perdonare questâennesimo episodio di disorganizzazione. Oltre tutto· quasi certi dâaver perso lâaereo. Entrando nel terminal un miliziano sembra confermare, scuote la testa a dice ch⏠inutile. ăVai, vai, corri che lo prendiamoä. Intuendo il problema, un funzionario compiacente evita di fermarci al controllo documenti. Va meno bene con la polizia doganale: ăPartitoä fa un tizio in uniforme, sbragato e col cappello di traverso. ăNo dai che facciamo in tempoä implora Elena. Il tizio  un furbone, mette sul banco una serie di fogli in cirillico e ci studia sottecchi. ăMerdaä. Sono dichiarazioni doganali, se vogliamo uscire non resta che compilarle. Bastardo, ci vorranno tre ore. Nella concitazione del momento chiede quanti soldi abbiamo. Che centrano i soldi? ăSoldi, soldiä ripete. Non capisco che intende. Poso in terra il borsone e mi frugo le tasche. Ne cavo una cinquantina di dollari in tagli diversi. Comincio a contarli. Senza complimenti, me li sfila di mano e con un sorriso che spiega tutto dice ă·express traitment· just for you·ä. Siamo allibiti, sembra una scena da film. Non sappiamo se protestare o fare buon viso a cattivo gioco. Poi, immaginando lâaereo che rulla in pista, optiamo per un sorriso di circostanza e corriamo allâuscita. A questo punto, potremmo pensare dâaver superato ogni ostacolo. Niente affatto. La parte difficile deve ancora venire. Il banco di accettazione della Turkish  gremito di gente. Ignorando ogni protesta passiamo in testa e chiediamo attenzione alla hostess. Sul principio non sembra vederci. é intenta a spuntare con indolenza una lista di dati. Emilio si sporge sul banco e abbaia un ăsorryä che fa tremare lo scalo, quarto grado Mercalli. Disturbata, solleva lentamente gli occhi, ci studia dieci secondi, getta uno sguardo al biglietto, si gira verso un gigantesco orologio a muro, torna a guardarci, scuote la testa riprendendo a spulciare la sua lista del cavolo. ăNo dai, dimmi che non  vero, dimmi che stai scherzando, dimmi che lâaereo  ancora con le ruote a terra· oohhhh, dico a te, dimmi qualcosa!ä Torna a distogliere gli occhi, infastidita, ci strappa il biglietto dalle mani e gira sui tacchi. Raggiunge un uomo, il capo scalo, un asiatico imponente dalla mascella larga e gli occhi come fessure. Gli spiega la storia. Si voltano entrambi, allâunisono, guardando il vuoto alle nostre spalle. Lâuomo sembra perplesso. Pensa un secondo, poi volta la schiena, anche lui scuotendo la testa: niente da fare, siamo a terra! Porco demonio, non a questo punto. Tentiamo la tattica napoletana: imploriamo, imprechiamo, spingiamo i bagagli sul carrello. Emilio fa il gesto di salire sul bancone. Otteniamo una prima vittoria: il capo scalo si gira, la faccia furente, e viene alla nostra volta. ăDai, non mollare, dai che riusciamo a convincerlo. Ti prego, ti prego, ti prego.ä Bestemmiando e scuotendo la testa, rosso come una fragola, prende in mano i biglietti e martella qualcosa al computer: ăNiente posti, tutto occupatoä. ăMa come· abbiamo i biglietti. Ti prego, ti prego, ti prego.ä Eâ vinto. Si lascia andare, regalandoci uno sorriso di zucchero. Dice qualcosa alla hostess. Questa si gira, perplessa, ma senza dir nulla preme un bottone, compila una carta, riconsegna i biglietti: ăUscita due·ä dice ăVeloci che parteä. Fiondandoci come proiettili sulla pista aspettiamo che la scaletta venga riposizionata prima di metter piede nella carlinga e consegnare le carte dâimbarco. Salvi. Ma il lieto fine, quello vero, deve ancora venire. Dato un occhio ai ticket, la graziosissima hostess sorride e con un gesto morbidissimo alza la mano, indicando poco lontano tre comodissime, larghissime, e del tutto impreviste, ·poltrone di prima classe! Da non credere. Un regalo che ricompensa le quaranta ore che ci separano dal campo Base del Lenin. Ci lasciamo avvolgere dallâabbraccio morbido del velluto, esageratamente felici. Silenziosamente, allâunisono, rendiamo grazie al magnanimo Dio del free ride.

Ultimo aggiornamento
24.02.2002
ore 22.40

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Tupolev Experience

Il  camion 
 
Luc al C3 dopo la cima

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04.08.2001
Pik Lenin Base camp.
"Missione Compiuta"


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Autoritratto in Tupolev  [Foto Luca Dalla Palma]
Facce sbattute, viaggio interminabile  [Foto Luca Dalla Palma]